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Il potere magico e il potere strumentale dell’intelligenza artificiale

di Vanni Sgaravatti

Nessun ragionamento sull’impatto sociale delle nuove tecnologie ha un senso se non si prova prima a chiarire la differenza tra intelligenza umana e artificiale, in particolare da un punto di vista ontologico. Provo a proporre qualcuna, anche se con un approccio semplicistico divulgativo.

L’intelligenza umana permette un adattamento situazionale e, quindi, dispone di una flessibilità cognitiva e comportamentale, in presenza di modifiche delle situazioni. L’abbiamo sviluppata anche grazie agli opportuni adattamenti filogenetici che completano la nostra potenziale autonomia individuale dopo la nostra nascita. Sono adattamenti che ci hanno permesso di mettere a punto un apprendimento imitativo specifico dell’altro e complessivo della comunità, imparando mentre lavoriamo insieme per raggiungere obiettivi comuni, supportati da un sentimento di empatia che si sviluppa a partire dai neuroni a specchio, attraverso le emozioni che vediamo riflesse nello sguardo degli altri verso il mondo e verso noi stessi. Siamo, quindi, dotati di una potenziale istintiva interpretazione dello stato mentale dell’altro, uno dei punti focali di questa capacità di adattamento cognitivo comportamentale. Un’interpretazione che si basa su informazioni multilivello, in cui un input informativo viene pesato dalle emozioni, che ci trasmettiamo innanzitutto attraverso segnali biochimici, cioè tramite il nostro corpo e successivamente attraverso segni e simboli culturalmente acquisiti.

Tali segnali sono rapidi perché agiscono contemporaneamente per formare concetti ad un livello superiore, diverso e indipendente da quello inferiore, dove le singole informazioni possono essere elaborate per computazione. L’artificiale, invece, può imitare il multilivello associando i pattern di informazioni del livello base direttamente alle espressioni tipiche del livello superiore, espresso dal comportamento, senza poter contare sulle emozioni e, quindi, sulla flessibilità e tempestività interpretativa che queste ci aiutano a determinare.

La possibilità di aumentare la velocità di interpretazione dei pattern potrà aumentare ancora negli artificiali, che, però, sono sempre basati sull’imitazione dei comportamenti adottati dall’uomo, seguendo processi di affinamento bayesiani della probabilità che la relazione tra un pattern e i comportamenti umani associabili siano validi e coerenti.

Ma c’è un limite a quella velocità, determinato dal fatto che l’artificiale non può disporre di criteri di significatività interpretativo-comportamentali basati sulla condivisione di emozioni corporee individuali e collettive, finalizzate ad obiettivi di sviluppo adattativo del gruppo percepito come un’unità. Un fattore questo che all’artificiale manca, in quanto strettamente dipendente dal progettista umano. Solo con molta immaginazione e una buona dose di fantascienza possiamo immaginare che, dopo periodi lunghissimi di auto-progettazione di sé stessi da parte della IA, questa si riconosca, con un grado di maggiore autoconsapevolezza, come appartenente alla comune “specie” degli artificiali, che generi proprie parti artificiali, a sua volta indipendenti, ma necessarie al funzionamento del tutto e, infine, possa sviluppare un senso di appartenenza della propria discendenza, interna alla “specie” artificiale, con conseguente autodeterminazione di propri obiettivi. E a quel punto, dovremmo aspettare che venga sviluppato un sistema di comunicazione tra artificiali e loro parti, fatta di segni e simboli, che rafforzi autonomamente quel loro spirito di comunità, interno alle stesse IA. Magari aspettando un nuovo Nietzsche artificiale, che descriva il loro mondo come un ambiente dove il Dio-progettista è morto.

Siamo ovviamente molto lontani da questo, anzi potremmo immaginarlo solo con la morte dell’uomo e con la nascita di un’altra specie di cyborg. A quel punto, però, visto che quando c’è la morte di qualcuno (la specie umana per come la conosciamo in questo esempio estremo), questo qualcuno non c’è più, allora la preoccupazione di un mondo fatto di cyborg autonomi non è un problema che ci riguarda. Prima di questo fantascientifico evento ci sarà un lungo processo in cui saranno messe alla prova la nostra etica e la nostra intelligenza. Vale la pena, per il momento, continuare a considerare le I.A. come strumenti, che, in quanto tali, non possono essere utilizzati per delegare l’autodeterminazione dei nostri fini, evitandoci di assumere rischi e responsabilità, con la conseguenza di alimentare la nostra pigrizia di pensare ed evitare la conseguente inquietudine di scegliere in un futuro incerto.

Abbiamo fatto esperienza che una direzione socialmente negativa, nell’utilizzo dell’artificiale come strumento, non è stata percorsa dagli anni ‘90 per colpa dell’innovazione digitale, ma di come questa si innestava in un’ideologia che considerava un valore sociale la massimizzazione dei profitti, che puntava alla diminuzione dei costi del personale attraverso l’automazione, la delocalizzazione, e l’eliminazione di mansioni adeguate a persone che non avevano alti livelli di studi; che credeva nella visione del “trickle down” e sul contrasto all’intervento statale, che avrebbe offuscato le informazioni sui bisogni dei consumatori.
E abbiamo fatto esperienza dei danni sociali, in termini di aumento della disuguaglianza e dell’emarginazione, prodotti, almeno in parte, dall’impiego delle prime innovazioni digitali finalizzate principalmente ad aumentare il potere di controllo e di sorveglianza.

Lo possiamo riscontrare confrontando i valori di alcuni indicatori nei trent’anni dal dopoguerra, rispetto agli stessi valori a partire dagli anni ‘90: diminuzione della crescita delle retribuzioni medie dal 2,5% allo 0,45%; dal 90% di famiglie in cui i figli avevano un benessere migliore dei genitori al 34%; dal 87% del salario di un nero rispetto ad un bianco al 72%; dal 68% del valore aggiunto prodotto attribuito al lavoro ad una percentuale inferiore al 60%; dal 10% dell’1% più ricco ad un 19% in USA, e nei paesi scandinavi, dal 7% al 12%.

Un processo innovativo alla ricerca del mito dell’efficienza come criterio di progresso che ha portato l’automatizzazione delle mansioni, da quelle di ufficio a quelle di fabbrica tramite i robot, favorendo, in coerenza con lo slogan: “mansioni complesse per persone ingegnose”, per gli umani, quelle con diploma post-laurea. La tecnologia in America si allontanò dalla visione ideale in cui era nata, adottando la visione neoliberista, che portò a diminuire i finanziamenti pubblici per la ricerca industriale dal 2% del pil allo 0,5%, appoggiando le priorità delle grandi imprese. Una dottrina conseguente a quella visione insegnata ai manager in tutte le business school, che impose, inoltre, un approccio diverso da quello antiautoritario dei primi pionieri delle macchine di Turing e che finì per essere “disruption” (Zuckerberg: muoviti velocemente e rompi le cose) ed elitario. Le tecnologie cercarono di fare a meno di persone che non erano all’altezza delle nuove innovazioni digitali e prevalse il mito della Silicon Valley, in cui le disuguaglianze sono normali e vanno persino perseguite e lo puoi fare solo con le start up tecnologiche. Con l’aggravante che l’inadeguatezza delle persone alle nuove mansioni, messe da parte da questo orientamento, costituiva la giustificazione ad un utilizzo sempre più pervasivo dei software sostitutivi.

La direzione che prese la tecnologia è stata quindi conseguente ad una scelta indotta dalla visione e dal sistema che la favoriva e non è stata autoprodotta da una innovazione che ne condizionava la scelta. Tant’è vero che in Germania, dove i manager dovevano confrontarsi nei comitati di gestione insieme ad i sindacati, la digitalizzazione, pur essendo molto più intensa che in America, potenziò le capacità dei lavoratori, sia nella fase di progettazione che nella fase di controlli di qualità, invece di spingere verso l’automazione, limitando gli effetti sociali negativi. Perciò, oggi, occorre chiedersi il “perché” di una nuova innovazione digitale, più del “come” e della sua fattibilità, ma soprattutto occorre che, a queste domande, rispondano tutte le persone su cui  l’innovazione artificiale impatterà e che ne potranno essere beneficiati o penalizzati. E questo può essere tentato solo attraverso sistemi sociopolitici inclusivi e, quindi, realmente democratici, che, però, dovendo affrontare problemi planetari ed impatti benefici o malefici altrettanto planetari, non dovrebbero limitare l’inclusività all’interno dei confini di Stati in competizione se non in conflitto. Sperare che oggi la politica ne tenga conto nell’incentivare ed orientare il processo di innovazione tecnologica è utopia, ma si può almeno provare a studiare, andare oltre alle discussioni tra fazioni opposte, che delegano il proprio pensiero ai capigruppo di turno, cercando di capire i termini delle questioni, ancor prima di dividersi, tra umanisti e tecnicisti.

Se una parte di noi umani approccia il problema della I.A. come fosse il risultato di un apprendista stregone è perché ci ostiniamo a non capire la natura strumentale della I.A. e che, quindi, questi strumenti sono in mano inevitabilmente ad una parte di umani, che, indipendentemente dalla loro intenzionale pianificazione di imporre la propria volontà di potenza, si trovano in grado di farlo. Probabilmente corrotti dal potere dell’anello (vedi il Signore degli Anelli nella sua originale scrittura al di là delle interpretazioni governative fanta-politiche ) e dall’opportunità di utilizzare l’aumento del proprio potere per dominare gli altri, essendo più facile che utilizzarli per migliorare sé stessi.

Insomma, tutti, dominatori e dominati, siamo animati dallo stesso intendimento di “farla facile”: tra chi attribuisce ai pifferai il proprio destino ed i propri difetti e i pifferai che attribuiscono alle ragioni dell’efficienza strumentale e tecnica quelle che li inducono e li spingono a fare con essi l’esercizio della propria volontà di potenza. Del resto, come è noto da secoli, per molti dei protagonisti o complici di danni sociali esiste sempre la benedizione domenicale, l’espiazione tramite la carità cristiana, la sostenibilità come uno degli slogan autoassolventi, basta che non si pretenda che “i tacchini si mettano nel forno da soli”, distribuendo a tutti il potere dell’anello.

 

(7 gennaio 2024)

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